Quanto segue è il testo di un abbozzo per una mia partecipazione al Vesak di Venezia nel 1996, poi non avvenuta. E’ un piano di lavoro per trarre, da una prospettiva storico-filosofica, alcune indicazioni che si sperano fruttuose per il presente impatto del buddhismo nella cultura occidentale. La forma aforistica, in dodici punti-chiave, ha consentito di rinviare una trattazione "esaustiva", di fatto inattuabile, della problematica in oggetto, per evidenziarne il carattere necessariamente provvisorio. (Traggo questo intervento da "Paramita", n. 57, pp. 53-4, alla cui redazione vanno i miei ringraziamenti per poterlo riprodurre in questa sede.)
1. Sul sapere pragmatico. Nel Ch'an la conoscenza non è frutto di un addestramento libresco: si parte da un fondo innato, già disponibile a tutti gli uomini, per il quale l'enigma del mondo è già stato svelato. Gilbert Ryle (The Concept of Mind) ha distinto due forme di conoscenza: il sapere pragmatico, relativo a prestazioni, competenze e abilità, e il sapere descrittivo o dichiarativo. Il primo ci dice "come si fa una cosa"; il secondo, "che cosa si fa". La differenza è la stessa che intercorre tra il vivere il buddhismo e il conoscerne la storia. E’ superfluo indicare a quale delle due forme vadano le simpatie del Ch'an e in quale direzione si orientino i suoi metodi.
2. Nuova percezione, anziché nuove cognizioni. Logica e pedagogia sono intrecciate. Se comprendo la realtà, cambio anche il mio modo di vederla, e coltivo una nuova mentalità. Anche questo spunto travalica il contesto della Cina medioevale, per potersi trapiantare fruttuosamente nella nostra cultura. Se un buddhista non abbandona le categorie del senso comune, in modo da abbracciare una nuova percezione, è assai dubbio che possa ritenersi tale. A coloro che insistono a dire che il buddhismo, nelle sue prerogative, conserva il senso comune, si dovrebbe ricordare la teoria nagarjuniana della doppia verità, che vi insiste solo per superarlo. Le implicazioni logico-speculative della problematica sono molto complesse, ancorché, a prima vista, trascurabili.
3. Per un decostruzionismo fecondo. Il Ch'an è autocritico, forse più di ogni altra scuola del buddhismo. Riflette su se stesso, per trovare tutti i possibili difetti di un'impostazione teorico-pratica. E arriva a dire, nelle sue frange più evolute, che il Buddha è un bastone per raccogliere escrementi. Molti ignorano questo aspetto, o cercano di trascurarlo, ridimensionandone la portata ("Il Buddha ha parlato sul piano della verità assoluta"). L'asserzione di Lin-chi, relativa alla necessità di uccidere il Buddha sul proprio percorso esistenziale, poi replicata da innumerevoli maestri, è da loro disattesa. Queste persone hanno bisogno di un punto di riferimento, e lo trovano nella sacralizzazione del Buddha, né più né meno come certi seguaci contemporanei di Shakyamuni, incapaci di cogliere la luna indicata dal suo dito. A me interessa il carattere autocritico del Ch'an, la sua capacità di mettersi in discussione; componenti che ne annullano qualsiasi potenziale dogmatico.
4. Patologia e salute. Un esempio concreto di una modificazione di mentalità: Buddha può esser visto come l'uomo ordinario, colui che ha problemi esistenziali e si dibatte tra le molteplici angoscie di ogni giorno - sebbene egli non se ne lasci schiacciare, ma ne accetti le contraddittorietà (cfr. il mio 1 maestri, Milano 1995). C'è da effettuare un lavoro alchemico interiore, puntualmente ripreso ed elaborato dal Ch'an.
5. Dissacrazione. I maestri del Ch'an vantavano personalità di un certo rilievo: né temevano, per l'occasione, di uscire dai meandri della tradizione, ogni qual volta si presentasse la necessità di istruire un allievo speciale, stimolandolo a guardare in sé. I nomi di Hui-neng, Chao-chou, Yun-men e tanti altri vengono subito in mente. Nel nostro secolo, il paragone non sembri irriverente, Alan Watts, Chogyam Trungpa e Krishnamurti, in contesti differenti, hanno mostrato lo stesso spirito dissacrante e innovativo. Forse è questa la direzione in cui muoversi.
6. Il punto focale. I maestri sapevano bene che l'allievo adotta una mentalità semplificante: "la meditazione conduce all'illuminazione". Perciò, si sforzavano di ridimensionarne i preconcetti, con frasi del genere: "L’illuminazione è l’illusione"; da cui: "la meditazione è l'inferno del samsara".
7. Panacea. Alimentare il pensiero magico significa credere che il compimento di un qualsiasi atto, per esempio la meditazione, conduca alla liberazione. E’ un'adesione indebita alla legge di causa/effetto, per rientrare, pesantemente e gravemente, nel senso comune.
8. Il buddhismo come può non essere. Non c'è contrasto tra lo studioso del buddhismo e il praticante stretto: se uno qualsiasi dei due giudica l'altro inferiore, in base alla propria attività, traccia una distinzione tra gli uomini, cadendo nei pregiudizi e nel pensiero acritico. Sulla questione, aveva visto giusto il monaco buddhista Kenko (cfr.: Momenti d’ozio, Milano 1975, p. 168). Determinante, è lo stato d'animo con cui si compiono le attività - è un assunto che il Ch'an riuscì a trapiantare sul suolo giapponese, per altri versi ostico alle sue proposte.
9. Suggerimento pluralistico. Tra gli uomini non c'è competizione: ciascuno giunge al risveglio in forza di se stesso, attraverso la Via da lui tracciata. Che altro mai dicevano i maestri del Ch'an?
10. Dalla storia al presente. A quanti tentano di ridurre l'essenza del buddhismo a una formula, o a un'attività pura e semplice, si dovrebbe ricordare che Dogen, esplicito fautore dello Zazen, aveva indicato l'esigenza di una biblioteca per ogni monastero. Gli stessi adepti del Ch'an, pur partendo da presupposti analoghi, se ne erano astenuti!
11. Implicazioni. Si può partire dal Ch'an per l'edificazione di un buddhismo universale, o anche da altre scuole, insistendo sulle analogie più che sulle differenze. Nel primo caso, si giunge al dialogo; nel secondo, a incomprensioni o sterili polemiche.
12. Sintesi inconclusiva. Le suddette proposte nascono da un coinvolgimento personale, sul piano esistenziale, e non pretendono né di essere risolutive né persuasive. E’ vero piuttosto che il buddhismo vive una fase molto delicata della sua espansione e, per evitare di battere percorsi semplicemente surrogatori o alternativi rispetto alle altre religioni (occidentali?), è auspicabile, forse, recepirne la prospettiva logico-pedagogica, anziché i settarismi e le residue vocazioni al proselitismo. Quanto alla figura del prete ascetico, che può fare capolino ai danni dello sviluppo individuale per riproporre il buddhismo come -ismo, il Ch'an ce ne mette, giustamente, in guardia. Ma anche un "maestro buddhista occidentale", per così dire, esprime l'essenziale al riguardo - si veda la terza dissertazione della Genealogia della morale di Nietzsche, esemplarmente indicativa.